martedì 24 settembre 2024

Andrea Lucchese Palli e i legami con Mandanici


Andrea Lucchese Palli nacque a Messina il 16 apr. 1692 (fu battezzato il 24) da Fabrizio, duca di Adragna dei principi di Campofranco, e da Anna Avarna dei baroni di "MANGANISI" (Treccani). Il fratello Giuseppe cadde nel 1757 a Leuthen al comando della cavalleria austriaca e la sorella Francesca, primogenita, dal 1710 fu monaca a S. Maria di Basicò in Messina. Morto il padre l'8 agosto 1707, acquisì il titolo di conte ed ebbe per tutore uno zio materno, il sacerdote F. Avarna, già maestro razionale del tribunale del Regio Patrimonio, che contribuì a spingerlo verso la carriera ecclesiastica; compiuti gli studi presso i gesuiti di Messina, il 23 luglio 1715 si laureò in teologia (poi in filosofia) nell'università cittadina. Fu ordinato sacerdote il 1 novembre 1716 dal teatino B. Castelli, vescovo di Mazara del Vallo.

La formazione culturale del giovane presule Lucchese Palli avvenne negli ambienti ecclesiastici di Palermo, e nel 1754 diveniva vicario dello stesso arcivescovo del capoluogo siciliano. A seguito della morte di mons. Gioeni-Cardona, vescovo di Agrigento, avvenuta il 26 settembre 1754, il re Carlo di Borbone proponeva la nomina di Lucchesi Palli. Il 27 luglio 1755 Andrea Lucchese Palli, principe Campofranco, veniva nominato dal cardinale Portocarrero arcivescovo di Agrigento. Fu a Palermo che egli acquistò la maggior parte dei libri, codici e oggetti di valore che successivamente costituiranno il suo patrimonio. Nel 1755 a Roma aveva conosciuto Alfonso Maria de' Liguori, e aveva preso accordi per affidare ai liguorini le missioni di predicazione nella sua diocesi, fino ad allora tenute da gesuiti e francescani. La realizzazione per la quale Andrea Lucchese Palli viene maggiormente ricordato fu la grande biblioteca pubblica che porta il suo nome, per la quale non risparmiò impegno, sforzi e mezzi finanziari. L'impresa ebbe inizio nel 1760 con l'acquisto delle aree attigue al palazzo vescovile, sulle quali in un quinquennio sorsero gli edifici destinati a ospitare le raccolte librarie e numismatiche. L'atto di donazione alla cittadinanza agrigentina, rogato dal notaio G. Giudice il 16 ott. 1765 e corroborato da due bolle di Clemente XIII del 10 dicembre dello stesso anno, prevedeva con grande minuzia le modalità di funzionamento e le regole di amministrazione dell'istituzione. Il prelato aveva suddiviso per argomento le collezioni che costituirono il nucleo originario della biblioteca, stimato in oltre 20.000 volumi. Lucchese Palli morì a Girgenti il 4 ott. 1768.
Le spoglie imbalsamate vennero esposte nel palazzo vescovile fino al 7 ottobre, quando ebbero luogo i funerali e fu aperto il testamento. Gli fu eretto nella cattedrale di San Gerlando un grandioso monumento funebre, da lui fatto progettare a Roma, che venne danneggiato da una frana nel 1966.
Chiusa questa parentesi sulla vita del personaggio oggetto del post, vediamo quali sono gli elementi che collegano il noto prelato a Mandanici.
Andrea Lucchese Palli possedeva numerosi immobili nel territorio di Mandanici, evidentemente ereditati dalla madre che era una Avarna. In tanti ricorderanno, anche da un nostro scritto di qualche mese fa, che una parte della famiglia Avarna si era stabilita a Mandanici e che il signorotto don Giacomo, nel 1674, era partito con un piccolo esercito proprio da Mandanici alla conquista del forte Castellaccio di Messina. Gli spagnoli, dovendosi vendicare, non esitarono a saccheggiare il paese con le loro truppe.
Negli atti del mastro notaro Saverio Tracuzzi, in data 15 gennaio 1735, risulta un contratto di acquisto stipulato proprio da Lucchese Palli. Ringraziando il dott. Filippo Manuli che alcuni mesi addietro ci ha inviato la foto di questo documento, noi pubblichiamo l'atto di proprietà di un fondo in contrada Liso, a nome di Andrea Lucchese Palli. Ci permettiamo di ipotizzare che quel "Manganisi" forse è dovuto a errate letture o trascrizioni nel corso dei decenni da parte degli storici. In foto: ritratto di Andrea Lucchese Palli.
G.C.
Armando Carpo, "Appuntamento a Mandanici nel 1747"
archivio della famiglia Manuli

martedì 31 ottobre 2023

Il feudo della Zaffera

 

Secondo una arcaica terminologia in uso fino alla fine dell’800 le terre infeudate venivano distinte in “Boschi” (terreni fertili e facilmente sfruttabili) e “Zafare”. Con il termine “Zaffera” o “Zafara”, si intendevano tutti quei territori scoscesi e difficilmente coltivabili, il termine deriva dall’arabo “Zafaran” (zafferano). Il 7 luglio del 1866 il parlamento del neonato Regno d’Italia estese anche alla Sicilia le cosiddette Leggi Siccardi, provenienti dallo Statuto Albertino, le quali prevedevano la soppressione di alcune corporazioni religiose minori e l’incameramento nel patrimonio statale dei loro beni, che per mezzo dell’Asse Ecclesiastico venivano trasferiti al demanio. Il cosiddetto Feudo della Zaffera si estendeva nell’area che parte dal torrente Badia e raggiunge il pizzo Cipolla. Il comune godeva dei cosiddetti usi civici, cioè far pascolare animali, fare fascine, e seminare. Tra il comune e la commenda abbaziale era nata una lunga lite giudiziaria per il possesso di una parte del feudo, che terminò solo nel 1903, con la stipula di un atto deliberativo firmato dall’avv. Giuseppe Scudery.  L’annosa questione era cominciata già nel 1742, in quell’anno l’abate don Pietro Zumbo infatti lamentava in una sua relazione che: “per la perfidia dei naturali di Mandanici viene allo spesso contrastato come si può osservare nella nota delle pretenzioni del monastero…”.

Nel 1812 il parlamento siciliano aveva abolito i feudi, e aveva sciolto i diritti promiscui su di essi.  In data 18 luglio 1842 il tecnico De Liguoro aveva provveduto ad assegnare al comune per usi civici (stabiliti con sentenza del 24 febbraio 1836) metà del fondo della Zaffera, e aveva anche nominato i periti Bruno, Barbera e Trifirò, i quali avrebbero dovuto stabilire i limiti del territorio assegnato e il suo valore. Fu decretato che la superficie da assegnare corrispondesse a 256 salme (are 458) con un valore di 7704 ducati. Il rappresentante della commenda abbaziale del monastero, che sottostava all’allora abate Vincenzo Lo Vecchio, comunicò di non essere d’accordo, giudicando eccessivo il conferimento al comune. La Gran Corte dei Conti di Palermo revocò il provvedimento e nominò un nuovo tecnico, che stabilì una nuova estensione della terra da concedere al comune, di circa 151 salme (are 270). Ma questa decisione fu ancora una volta contrastata dai rappresentanti dell’abbazia, per le divergenze riscontrate si propose infatti una riunione di tutti i tecnici che avevano proposto le precedenti soluzioni, cosa che non avvenne mai. Nel frattempo l’abbazia i suoi territori vennero incamerati al demanio, come si diceva precedentemente, e nel 1890 la questione passò nelle mani del demanio stesso, asse ecclesiastico. La giunta comunale premeva per la nomina di un ingegnere che stabilisse l’esatta estensione del fondo. Fu inviato l’ing. Pompeo Menghetti, il quale con apposita relazione stabiliva in ettari 395 la superficie, con valore di 18400 lire. Il comune presentò ricorso, ma il prefetto di Messina confermò ugualmente quanto decretato da Menghetti, condannando il comune di Mandanici al pagamento di una sanzione. L’acquisizione della Zaffara era molto tenuta in considerazione, infatti esistono molti atti deliberativi prodotti in seguito alle sedute del consiglio comunale (nel periodo che va dal 1901 al 1903). Alla seduta del 3 marzo 1901 avevano partecipato i consiglieri: Barbera Sebastiano, Scuderi Zuccaro Giuseppe, Scuderi Santi, Spadaro Aristide, Longo Giuseppe, Scuderi Giuseppe, Candido Giuseppe, Butà Pietro e Caminiti Agatino. Il comune si oppose anche al Prefetto, che nel frattempo aveva ordinato la delimitazione del confine tra il territorio che sarebbe dovuto rimanere di proprietà dello stato e la parte che invece sarebbe andata al comune. I rappresentanti del demanio vennero infatti denunciati al regio commissario per gli affari demaniali, e il comune offrì “a strasatto” 2500 lire per l’acquisto di tre quarti del fondo che invece, secondo le precedenti decisioni, sarebbe rimasto al demanio. Il 10 luglio 1903 tale proposta venne accettata dal consiglio di Stato e quindi dalla commissione provinciale dell’asse ecclesiastico. Il 12 agosto 1903 avvenne la stipula della transazione nell’ufficio del registro di Alì marina alla presenza del notaio don Pietro Mirone, mentre le parti erano rappresentate da Mario Di Stefano per il Demanio e da Giuseppe Scuderi sindaco di Mandanici.

mercoledì 7 dicembre 2022

La patrona. Santa Domenica V. e M.

2016

Santa Domenica nacque a Tropea verso la fine del 3° sec. d.C. da Doroteo e Arsenia, nobili cristiani di origine greca. Dopo parecchi anni di matrimonio non avevano avuto prole e la supplicavano dal Signore con preghiere, digiuni, elemosine. In breve tempo la loro vita venne allietata dalla nascita di una bella bambina che, siccome nata di domenica e soprattutto perché donata in modo eccezionale da Dio venne chiamata Domenica, cioè “Consacrata al Signore”. Domenica crebbe in grazia e santità e in breve tempo offrì tutta sé stessa a Gesù. In quel periodo culminava una delle più terribili persecuzioni pagane contro i cristiani, quella ordinata da Diocleziano Augusto e Domenica con i suoi genitori vennero denunciati come cristiani al Proconsole di Calabria, Ilariano, che li condusse dinnanzi all’imperatore per essere giudicati. Questi dapprima rimasto colpito dalla singolare bellezza di Domenica si mostra con dolcezza consigliandola ad abiurare la fede per l’idolatria, ma ottenendone un netto rifiuto, ordina che i tre vengano flagellati per le vie della città e che i suoi genitori vengano deportati in Mesopotamia per essere decapitati. Ma tutto fu inutile, Domenica continuava con più forza a professare la sua fede. Diocleziano, ben presto, dovette andare in oriente per risolvere alcuni problemi relativi all’impero e cedette l’occidente al Cesare Massimiano. Questi provò a incuterle spavento, ma la nostra Eroina, con poche parole suggerite dallo Spirito Santo, confuse e ammutolì l’imperatore che sentendosi deriso chiamò una donna d’ infame mestiere e le chiese, con larghe promesse di doni, di corrompere in Domenica l’innocenza verginale e portarla all’apostasia. La detestabile donna, avendo un certo debole per l’imperatore, accettò subito, ma rendendosi conto che tutti i tentativi di corrompere Domenica si rivelarono inutili, la riportò da Massimiano. Questi non sapendo più cosa farne, la ricondusse da Ilariano, che la sottopose ai più crudeli tormenti: fu condannata al rogo ma il Signore la guarì miracolosamente dalle piaghe; venne condotta al tempio di Giove per adorare gli dei, ma con molta indifferenza Domenica tracciò un segno di croce scatenando una terribile scossa che ridusse tutto in frantumi e uccidendo anche il Proconsole Ilariano. Si tentò un’ ultima prova: venne condannata al supplizio “AD LEONES”, ma le belve le si accovacciarono ai piedi leccandoglieli. Vista la vittoria sui tanti tormenti e il popolo che si convertiva sempre più alla fede cristiana, venne infine condannata alla decapitazione. Era il 6 Luglio 303. Domenica venne condotta fuori le mura di Nola e dopo aver ringraziato il Signore per averla resa degna di patire per Lui e implorando il perdono per i suoi persecutori, porse il capo al carnefice che d’ un sol colpo lo recise coronandolo di glorioso martirio. Gli angeli presero allora umane sembianze, raccolsero il corpo della Martire e lo trasportarono miracolosamente a Tropea, sua patria, dove ancora oggi riposa circondato da grandissima venerazione.


Il culto a Mandanici

Il reliquiario 
È verosimile pensare che il culto di Santa Domenica si sia instaurato nel secolo XII, infatti proprio in quel periodo i monaci greci edificavano la chiesa dedicata alla Santa. Nella chiesa orientale Santa Domenica viene venerata con il nome “Kyriaki”, che significa “consacrata al Signore”. Notizie più sicure sul culto si hanno a partire dal ‘700. Nell’archivio della chiesa madre si conserva infatti l’indulto, datato 15 febbraio 1727 con il quale la Sacra Congregazione dei riti autorizzava il clero di Mandanici a celebrare la festività della Santa con tutti gli onori liturgici del caso. Nel 1737, sentendo il bisogno di rendere più viva la venerazione dei fedeli verso la loro Patrona, il reverendo Sebastiano Miceli, arciprete di Mandanici, ottiene da Mons. Gennaro Guglielmino Vescovo di Tropea un “reliquiario d’argento” contenente “un pezzetto di colonna alla quale fu flagellata e martirizzata” S. Domenica. Il sacro cimelio è ancor oggi custodito nel Duomo e venerato con fede dai mandanicesi nei giorni della festa della Patrona. La sera del 5 luglio si usava accendere un fuoco dinnanzi al prospetto della chiesa madre, per ricordare l’atroce martirio subito da Domenica; nella memoria collettiva l’evento è ricordato come “bampariziu”. Era una tradizione molto sentita quella di esporre il simulacro sulla soglia del portale durante i forti temporali, di modo che le preghiere rivolte a Santa Domenica facessero cessare la pioggia. Tutto ciò accadeva spesso fino al primo ‘900, mentre negli ultimi decenni la modernità ha cancellato queste antiche usanze. I festeggiamenti liturgici si svolgono, come vuole il martirologio romano, il 6 luglio, mentre la processione per l vie del paese è la prima domenica di agosto.


                                                
 

L'urna contenente le reliquie (2003)

 
Il simulacro con la fascia di velluto nero prima del 2003

domenica 23 ottobre 2022

Mandanici nel Lexicon Topographicum Siculum.... trascrizione della voce e considerazioni

 







"Mandanice. Lat. Mandanicis. Sic. Mandanici. (V.D.) Paese detto Mandanichium nei diplomi del Re Ruggiero e comunemente nei pubblici registri. Strappollo ai Saraceni il conte Ruggiero, e lo decorò di nobile monastero di ordine basiliano sotto il titolo di S.M. Annunziata; l’appella il Pirri munitissimo borgo sito a 24 m. da Messina, e presso il fiume del medesimo nome. L’enumera Arezzo trai paesi disposti nei monti sopra lo stretto, ma la vera distanza tra Messina e Mandanice non sorpassa le 20 m. . E dalla spiaggia non se ne contano che 4. Confermando il Re Ruggiero con suo decreto del 1145 il diploma del Conte, in cui si descrivono i confini delle terre appartenentisi al cenobio, conferì al primo abate Filadelfio ogni dritto sui terrazzani che volle esenti sì dal Vescovo diocesano che dai ministri laici di Messina, il che fu poi confermato dal Re Martino: poiché nessuno, dice, oltre l’abate può stabilirvi officiali. Dopo i monaci assunti ad Abati, sino al 1475 fu affidato il cenobio ai chierici secolari, i quali pagano le rendite congruenti per la cosiddetta mensa alla comunità dell’ordine medesimo ed allo Abate regolare: occupano essi però il XXV posto nel Parlamento del Regno, e si hanno soggette le chiese di San Niccola del Celso, e di Santa Maria di Ballomero colla cura delle anime, nella fiumara di Mandanice. Il tempio maggiore del paese sacro a San Domenico e diretto dall’Arciprete si ha 4 Chiese filiali e si comprende nella diocesi dell’Archimandrita di Messina. Erano la case 270 sotto l’Imp. Carlo V e 1030 le anime verso la fine del suo secolo. Contavansi nel 1652 431 case e 1442 abitanti; 330 case nel 1713 e 1146 anime decresciute ultimamente a 1009. Comprendesi il paese nella comarca di Taormina, ne va soggetto all’istruttor militare, e si ha un territorio ricco in vino, seta, biade, adattissimo a pingui pascoli ed a boschi per mantenimento dei porci e delle pecore. Sta in 39° di long. e 38° di lat. . Non tralascio aver letto nel censo di Federico del 1320: Berlingherio de Oriolis per Raccuja ed il casale Mandanichi onze 40, donde potrebbe ricavarsi essersi appartenuto il dominio di Mandanici nel secolo XIV alla nobile famiglia di Orioles, ma essendo perdurato il paese nel vassallaggio dell’Abate da tempo di Ruggiero, direi essere incorsa menda nel censo, poiché dista molto altronde da Raccuglia e siede verso le parti aquilonari della Valle. Il fiume di Mandanice che manca quasi di acque nell’està, pei torrenti che vengon giù dalle colline s’ingrossa nell’inverno, e scaricasi nello stretto appresso il Fiumedinisi.”

 

Vito Maria Amico è stato uno storico, letterato e religioso siciliano, nato a Catania il 15 febbraio 1697 ed ivi deceduto il 5 dicembre 1762. A sedici anni entrò nel monastero di San Nicolò l'Arena di Catania. A trentaquattro anni divenne priore della comunità monastica, ed in seguito fu nominato priore di tutti i monasteri benedettini di Messina, Militello, Castelbuono e Monreale. Ebbe poi la cattedra di storia civile all'Università di Catania, e fondò la prima biblioteca pubblica catanese. Carlo di Borbone lo nominò nel 1751 con atto ufficiale storiografo regio. Fu priore di 25 diversi monasteri e fu anche nominato abate nel 1757. Il suo più noto lavoro è il Lexicon topographicum Siculum (Panormi, 1757-1760), un dizionario topografico che raccoglie informazioni su tutte le località della Sicilia, diviso in tre tomi. Tra il 1855 e il 1858 è stata pubblicata una edizione tradotta e annotata da Gioacchino Di Marzo (da cui è tratta la voce riguardante Mandanici e trascritta sopra). Le informazioni fornite dall’Amico sono di vario genere; di carattere storico, geografico, demografico e amministrativo. La Mandanici, o per meglio dire Mandànice, di cui parla Vito Amico è quella della prima metà del ‘700, periodo di profondi mutamenti. Inizialmente l’autore fa esplicito riferimento al monastero, fondato nel 1100 dal conte Ruggero dopo la cacciata degli arabi da quello che Rocco Pirri definiva “vicus munitissimus” cioè villaggio fortificato. Un secondo importante riferimento è alla conferma del privilegio di Ruggero I fatta da Ruggero II a Messina nel 1145. Il monastero, con il documento sopra citato, aveva confermati e definiti i precisi confini della sua proprietà, e inoltre continuava ad essere autocefalo. Infatti si conferiva al primo abate Filadelfio ogni diritto sui “terrazzani” cioè sugli abitanti del territorio assegnato al monastero, che era molto vasto e più o meno coincide, con qualche cambiamento, al territorio odierno del comune di Mandanici. Tra i diritti dell’Abate vi era ad esempio quello di “portare o condurre o far condurre uomini per abitare liberi in detta tenuta”, oppure quello di giudicare chi commetteva reati. Chi sottostava al monastero era esente sia dal potere del vescovo che dal potere degli amministratori messinesi. L’Amico omette di dire che nel 1220 il cenobio viene assoggettato all’archimandritato del SS. Salvatore. Nel 1430 il re Martino di Sicilia confermava i privilegi sopra spiegati con apposita bolla indirizzata al frate Barchinofrio. Fino al 1475 l’abbazia appartenne ai chierici secolari (per chierici secolari s’intendono i presbiteri che non appartengono ad un ordine religioso), i quali occupavano anche un posto nel parlamento del Regno, al monastero appartenevano le grange di Santa Maria Ballomerio (che secondo alcuni storici è la chiesa di San Sebastiano, dirimpettaia dell’abitato di Pagliara, e “Ballomerio” sarebbe una variante derivata dal nome greco Polimenon, tuttavia dai resoconti della visita regia di mons. Giovanni Angelo De Ciocchis avvenuta nel settembre 1741 risulterebbe una probabile attribuzione alla chiesa della SS. Trinità in Mandanici) e di San Niccola del Celso (San Nicola di Sicaminò). Dai dati demografici risulta un calo della popolazione avvenuto tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700. Precisamente: nel 1652 vi erano 1442 abitanti che nel 1713 divennero 1146. Il Pirri ne riporta 1058 nel 1730 (cfr. Armando Carpo “Mandanici memorie da non perdere” p.24 dove sono riportati i dati della popolazione in un arco di tempo che va dal 1570 al 2011). Il calo registrato potrebbe essere dovuto alla rivoluzione di Messina del 1674, durante la quale si scontrarono i “Merri” e i “Marvizzi”, rispettivamente favorevoli al governo spagnolo e ai francesi. Mandanici in quella situazione si schierò contro gli spagnoli, per cui fu saccheggiato. Vito Amico cita anche la chiesa madre, la quale è intitolata a San Domenico. È noto a tutti come l’odierna intitolazione sia a Santa Domenica, questo potrebbe quindi essere un errore di traduzione oppure di trascrizione, inoltre nel periodo in cui viene redatto il Lexicon Topographicum Siculum, il clero di Mandanici era già stato autorizzato con apposito indulto della Sacra Congregazione dei Riti datato 15 febbraio 1727 a celebrare la festività di Santa Domenica V. e M. con tutti gli onori liturgici del caso.


venerdì 3 giugno 2022

Locadi...

 I nostri amici Lucadoti saranno felici di sapere che gli abbiamo dedicato un post.

Locadi è quel piccolo gruppo di case che sta sulla sponda sinistra della fiumara Dinarini, esattamente dirimpetto alla contrada Natticò. È situato a 325 m. s.l.m., allo stato auttuale è frazione di Pagliara, ma fu comune autonomo fino al 1927. Le sue origini, sono più antiche rispetto a quelle di Pagliara, il nome si rifarebbe a Leocades un centro greco costruito, come Locadi, su un burrone. Fino al 2011 contava circa 40 abitanti, oggi sono molto meno. Al 1948 risultavano 375. Nel territorio di Locadi è presente la torre Sollima, appartenente all'omonima famiglia e anticamente torre di avvistamento. Locadi rimase isolato dopo la costruzione della SP 25 Roccalumera - Mandanici, per cui si rese necessario costruire un ponte sul torrente Dinarini che permette il raggiungimento del piccolo centro. Il bivio per Locadi è posto all'entrata della frazione Badia (Mandanici), nella contrada Utra. Il piccolo centro fu danneggiato dal terremoto del 1908, motivo per il quale si era deciso di far trasferire tutti gli abitanti a Badia, fatto che non si realizzò mai. Per chi fosse interessanto a conoscere altre informazioni su Locadi, consigliamo di consultare il testo "Locadi" del prof. Antonino Ucchino, edito da Intilla nel 2011.

martedì 10 maggio 2022

L'orologio.....

Intere generazioni sono cresciute con i rintocchi dell'orologio, tassativamente ogni quarto d'ora, per chi abita/abitava nelle vicinanze della matrice è forse un po' difficile prendere sonno, ma ci si fa l'abitudine. Da anni scandisce la vita paesana che va avanti. Da tempo immemore Mandanici dispone del suo "pubblico oriloggio", in alcuni documenti risalenti al '700 risulta che l'università di Mandanici spendeva una somma annuale per la manutenzione dell'orologio, presumibilmente meccanico (per approfondire consultare "Appuntamento a Mandanici nel 1747"  di A. Carpo). Del tipo di orologio che era presente agli inizi del '900, non abbiamo notizie. Verosimilmente doveva essere di tipo meccanico, ancora nel campanile sono conservati i contrappesi che lo facevano funzionare. Negli anni '50 - '60 l'amministrazione Fasti si interessò della sua  riparazione. Il sindaco Fasti spesso raccontava di essersi recato a Palermo, fino a quando non fu ascoltato non se ne andò dalla sala di attesa dell'ufficio al quale si era rivolto. L'orologio era indispensabile, i contadini che andavano a lavorare in campagna dovevano poter rendersi conto dell'orario. Poi arrivò l'idea di installare una sirena, che puntualmente suonava alle 16:30.  Il quadrante dell'orologio presentava numeri arabi, qualcuno ricorda anche che fosse lesionato. Arriviamo  così al 2000. Con quel restauro il quadrante venne sostituto con quello attuale, con i numeri romani. Nelle ore notturne, l'orologio era abbellito anche da una retroilluminazione (fino  a qualche anno fa).

Foto di Gabriele Ciatto

Andrea Lucchese Palli e i legami con Mandanici

Andrea Lucchese Palli nacque a Messina il 16 apr. 1692 (fu battezzato il 24) da Fabrizio, duca di Adragna dei principi di Campofranco, e da ...