martedì 31 ottobre 2023

Il feudo della Zaffera

 

Secondo una arcaica terminologia in uso fino alla fine dell’800 le terre infeudate venivano distinte in “Boschi” (terreni fertili e facilmente sfruttabili) e “Zafare”. Con il termine “Zaffera” o “Zafara”, si intendevano tutti quei territori scoscesi e difficilmente coltivabili, il termine deriva dall’arabo “Zafaran” (zafferano). Il 7 luglio del 1866 il parlamento del neonato Regno d’Italia estese anche alla Sicilia le cosiddette Leggi Siccardi, provenienti dallo Statuto Albertino, le quali prevedevano la soppressione di alcune corporazioni religiose minori e l’incameramento nel patrimonio statale dei loro beni, che per mezzo dell’Asse Ecclesiastico venivano trasferiti al demanio. Il cosiddetto Feudo della Zaffera si estendeva nell’area che parte dal torrente Badia e raggiunge il pizzo Cipolla. Il comune godeva dei cosiddetti usi civici, cioè far pascolare animali, fare fascine, e seminare. Tra il comune e la commenda abbaziale era nata una lunga lite giudiziaria per il possesso di una parte del feudo, che terminò solo nel 1903, con la stipula di un atto deliberativo firmato dall’avv. Giuseppe Scudery.  L’annosa questione era cominciata già nel 1742, in quell’anno l’abate don Pietro Zumbo infatti lamentava in una sua relazione che: “per la perfidia dei naturali di Mandanici viene allo spesso contrastato come si può osservare nella nota delle pretenzioni del monastero…”.

Nel 1812 il parlamento siciliano aveva abolito i feudi, e aveva sciolto i diritti promiscui su di essi.  In data 18 luglio 1842 il tecnico De Liguoro aveva provveduto ad assegnare al comune per usi civici (stabiliti con sentenza del 24 febbraio 1836) metà del fondo della Zaffera, e aveva anche nominato i periti Bruno, Barbera e Trifirò, i quali avrebbero dovuto stabilire i limiti del territorio assegnato e il suo valore. Fu decretato che la superficie da assegnare corrispondesse a 256 salme (are 458) con un valore di 7704 ducati. Il rappresentante della commenda abbaziale del monastero, che sottostava all’allora abate Vincenzo Lo Vecchio, comunicò di non essere d’accordo, giudicando eccessivo il conferimento al comune. La Gran Corte dei Conti di Palermo revocò il provvedimento e nominò un nuovo tecnico, che stabilì una nuova estensione della terra da concedere al comune, di circa 151 salme (are 270). Ma questa decisione fu ancora una volta contrastata dai rappresentanti dell’abbazia, per le divergenze riscontrate si propose infatti una riunione di tutti i tecnici che avevano proposto le precedenti soluzioni, cosa che non avvenne mai. Nel frattempo l’abbazia i suoi territori vennero incamerati al demanio, come si diceva precedentemente, e nel 1890 la questione passò nelle mani del demanio stesso, asse ecclesiastico. La giunta comunale premeva per la nomina di un ingegnere che stabilisse l’esatta estensione del fondo. Fu inviato l’ing. Pompeo Menghetti, il quale con apposita relazione stabiliva in ettari 395 la superficie, con valore di 18400 lire. Il comune presentò ricorso, ma il prefetto di Messina confermò ugualmente quanto decretato da Menghetti, condannando il comune di Mandanici al pagamento di una sanzione. L’acquisizione della Zaffara era molto tenuta in considerazione, infatti esistono molti atti deliberativi prodotti in seguito alle sedute del consiglio comunale (nel periodo che va dal 1901 al 1903). Alla seduta del 3 marzo 1901 avevano partecipato i consiglieri: Barbera Sebastiano, Scuderi Zuccaro Giuseppe, Scuderi Santi, Spadaro Aristide, Longo Giuseppe, Scuderi Giuseppe, Candido Giuseppe, Butà Pietro e Caminiti Agatino. Il comune si oppose anche al Prefetto, che nel frattempo aveva ordinato la delimitazione del confine tra il territorio che sarebbe dovuto rimanere di proprietà dello stato e la parte che invece sarebbe andata al comune. I rappresentanti del demanio vennero infatti denunciati al regio commissario per gli affari demaniali, e il comune offrì “a strasatto” 2500 lire per l’acquisto di tre quarti del fondo che invece, secondo le precedenti decisioni, sarebbe rimasto al demanio. Il 10 luglio 1903 tale proposta venne accettata dal consiglio di Stato e quindi dalla commissione provinciale dell’asse ecclesiastico. Il 12 agosto 1903 avvenne la stipula della transazione nell’ufficio del registro di Alì marina alla presenza del notaio don Pietro Mirone, mentre le parti erano rappresentate da Mario Di Stefano per il Demanio e da Giuseppe Scuderi sindaco di Mandanici.

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